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Di giustizia riparativa o restorative justice si è cominciato a parlare a partire dagli anni settanta nel Novecento, soprattutto negli Stati Uniti, come di un “nuovo approccio alla giustizia penale” non più fondato sui paradigmi della vendetta e del castigo, ma su quello della riparazione attraverso la soddisfazione della vittima ottenuta con una attività di mediazione: una giustizia senza spada, come recita il bel titolo del libro di Grazia Mennozzi2, oppure di una giustizia che volge il suo sguardo verso Caino cercando di recuperarlo e di sanare il conflitto innescato dal reato3.
L’espressione restorative justice è stata coniata da Albert Eglash in un articolo scritto nel 1977 che seguiva di qualche anno la vicenda giudiziaria Kitchener nell’Ontario nella quale due soggetti condannati per danneggiamento si sottoposero volontariamente ad un programma di riconciliazione con le vittime; i buoni risultati ottenuti catturarono l’attenzione del mondo scientifico e avviarono sperimentazioni sempre
più intense4. Negli anni Novanta il concetto assunse una grande importanza grazie agli studi di Zehr, che può considerarsi il padre della giustizia riparativa e del quale traduco la sintetica ed efficace definizione: «La giustizia riparativa può essere vista come un modello di giustizia che coinvolge la vittima, il reo e la comunità nella ricerca di una soluzione che promuova la riparazione, la riconciliazione e il senso di sicurezza collettivo»5…..

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